STORIE DI QUESTI GIORNI

AITeRP ha pensato di creare uno spazio per condividere le esperienze professionali dei Tecnici della Riabilitazione Psichiatrica che lavorano durante questa emergenza sanitaria.

L’attuale condizione di emergenza sanitaria ha notevoli ripercussioni sulla vita di tutti i cittadini.

Vediamo quanto gli operatori del SSN siano duramente impegnati ad affrontare l’emergenza Covid-19, e quanto ogni giorno, in condizioni sempre più difficili, lavorino per affermare il diritto alla salute e alle cure dei cittadini.

Altrettanto importante, per la salute pubblica, è il funzionamento della rete della Salute Mentale, perché possa rispondere alle richieste di nuove persone bisognose e a quelle già in carico, nel rispetto delle norme emanate dal Governo.

In questa fase più che mai si sta mettendo alla prova la dichiarazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità “non c’è salute senza salute mentale”.

AITeRP ha pensato di creare uno spazio per condividere le esperienze professionali dei Tecnici della Riabilitazione Psichiatrica che lavorano durante questa emergenza sanitaria.

Lo spazio narrativo è un’occasione per condividere le esperienze in questo periodo di emergenza che mette tutti  di fronte ad un nuovo, inesorabile senso del limite, portando con sé spesso sovraccarico emotivo, pressione, sensazioni di impotenza e inadeguatezza.

Parlare delle esperienze vissute da noi Terp può rappresentare un’opportunità di formazione e può testimoniare il valore del nostro lavoro nel continuo sostegno quotidiano a quella fetta di popolazione che già viveva la sofferenza psicologica e che ora, ancor di più, ha bisogno di  interventi mirati a ridurre ansie e angosce e a preservare l’integrità psicofisica.

L’idea della Rubrica nasce dall’iniziativa di una collega e socia AITeRP, che ci ha spontaneamente inviato il suo racconto, sentendo l’esigenza di condividere la sua esperienza. Ringraziamo Carmen Ricciardi che narrandosi ha fatto da “apripista” alla nostra Rubrica.

Ti invitiamo a inviarci la tua esperienza all’ indirizzo mail info@aiterp.it e noi la pubblicheremo nella nostra rubrica, INSIEME CE LA FAREMO.

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    Elena Fossati


    E poi ci sono i liberi professionisti….

    Sono felice di essere una TERP libera professionista, ormai da 20 anni, una TERP che per la libera professione, ma in linea con le nostre finalità, ha declinato e portato la nostra competenza di cura, ma anche di prevenzione, formazione in ambiti diversi, utilizzando anche strumenti trasversali diversi: sono una DanzaMovimentoTerapeuta, ho un master in sitemi sanitari medicine tradizionali e non convenzionali e uno in neuroscienze, mindfulness e pratiche contemplative… mi muovo come libera professionista, solitamente sul mio territorio e nel mio centro, realizzato con la collaborazione di professionisti di settori e ambiti diversi di pratiche convenzionali (altri professionisti sanitari) e non convenzionali…
    Ora però sono a casa e seguo online, volontariamente utenti, clienti, pazienti …. con un progetto che accompagna, giorno per giorno, le persone che solitamente (ma non solo ora) abitano il mio studio “Lo Spazio”.
    In questo momento di “crisi” per tutti, ho deciso che, eticamente, non potevo pensare a quanto potevo “guadagnare” da ciò, ma come potevo aiutare le persone che soffrono e che faticano a stare in un equilibrio così repentinamente dinamico. Ho creato un progetto, coinvolgendo i colleghi, che sta avendo ottimi risultati di interazione tra le persone. Un progetto che lavora sulla prevenzione, educazione e si avvicina a tutti coloro che vivono questo momento come un disagio più o meno intenso, ma che non sono seguiti da enti, strutture,… in quanto non aventi diagnosi.
    Questa epidemia sta creando tanto disagio e noi TERP freelance dobbiamo stare nel qui e ora e con quello che ora c’è.
    Ora mi sto preparando per riprendere qualche terapia individuale, ma c’è tanto lavoro da fare e noi proprio ora dobbiamo esserci a tutti i livelli, anche tra la gente comune!

    Un cordiale saluto e grazie per essere presenti anche per noi!

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    Sergio Denza, Vincenzo Cuomo


    Cominciamo, dai…

    Tecnici della riabilitazione psichiatrica già da prima che il profilo si delineasse con un articolo. La nostra figura professionale è nata dalla necessità di approfondire le conoscenze per poter dare alle persone  che abbiamo incontrato nella prassi una vita che non sia solo la rappresentazione della sofferenza. In tanti anni abbiamo affrontato vari cambi di paradigma, sempre ancorati alle teorie di riferimento che hanno caratterizzano  i  tempi;  in  questi  ultimi  cognitivo- comportamentale anche per core-competence..

    Oggi lavoriamo in centri diurni, residenziali e semiresidenziali, in rems e in spdc, sul campo dovunque può essere utile operare con le nostre conoscenze, dove i responsabili psichiatri riescono ad intravedere una applicazione sensata in linea con le nostre specificità o anche in autonomia quando è necessario comprendere e rispondere allo stupore del mai vissuto prima. WHODAS, problem solving, social skills,  recovery, psicoeducazione ed altro. Umanità che si trasforma.

    C’è un emergenza planetaria, diversa dalla nostra routinaria emergenza e tutto diventa incerto. Minuto dopo minuto, dopo qualche giorno cominciano ad arrivare decreti e circolari di indirizzo dai vari enti, cerchiamo di orientarci. Da subito sembra chiaro a tutti che bisogna lavorare in isolamento, anzi, in distanziamento. Dire ai familiari: “non venite” diventa: “bisogna ridurre al massimo la vostra presenza in struttura, venite solo per necessità improrogabili e l’appuntamento è fuori al cancello, purtroppo.”. Efficace ed efficiente.

    E poi: “Ciccio non possiamo uscire senza DPI.”. Il progetto che ti ha portato qui dalla questura all’opg, ora in SIR (struttura intermedia residenziale) e a marzo prevedeva il cercare una piccola casa per farti vivere con la tua compagna, è sospeso a tempo indeterminato. Tutte le mattine mi chiedeva di fare presto oggi mi guarda negli occhi e non mi chiede nulla, ha da subito intuito che si tratta di resistere, oggi non c’è più protocollo che tenga. Ci sono io e tutti quanti dentro. Fino a ieri dicevamo: “uscite, che state a fare qua! Troviamo qualcosa da fare al centro polifunzionale, in biblioteca multimediale, negli spazi per la socializzazione esistenti nel nostro rione, nei quartieri limitrofi”. Adesso: “meno usciamo e meglio è, per noi e  le  persone  che amiamo!”. C’è una frase di Gaber in una teatro-canzone del 1973: “..siamo murati dentro..”. No, noi no, non lo siamo stati prima e non lo saremo ora che non si può fisicamente uscire. “Enzo che facciamo?”. “Manteniamo il contatto con l’esterno attraverso i social network, permettiamo a familiari e chi è interessato a seguire le nostre vicende, la quotidianità, attraverso un profilo social”. Nasce un diario di foto, video, interviste e un racconto giornaliero dell’umore collettivo.

    E sempre da…

    Un sorriso, dalla sua liberatoria catarsi o dalle sue positive conseguenze, come l’amore. E come piacerebbe a diary  of  a  mad  coffee maker. Dal sorriso, dalla sana ironia a dall’irrinunciabile “profumo del caffè”, per giungere a disvenare finalmente quell’arcano che abbiamo nascosto, pur se con un rispettoso, nonché sincero sentimento di ringraziamento. A Dio, se esiste e anche se non esiste, a

    noi stessi, a voi che ci seguite e a chi ci precede in posizione apicale ed in rigoroso ordine burocratico (proprio come Weber comanda), pubblico o privato sociale che sia, ma con presenza, attenzione e affetto. Dalle tenebre alla luce.

    Allora…

    Immagina che un giorno ti possa trovare al cospetto di due astronauti che, di sicuro, saranno metantropi (penseresti); per le armature che indossano; per l’andatura con cui sono scesi dalla grande unità mobile caduta chissà come sulla terra. Dopo le dovute gestualità cosmicomichenapoletane di rito tra le parti (I. Calvino ce lo consentirà, anche i vertici) al mero fine comunicativo (in breve: ma vuje, chi site? Che bulite?), i presunti alieni che si stanno scientemente apprestando   a scovare altre forme di vita patogene dal tuo e dall’altrui io corporeo, iniziano però a gesticolare in maniera concitata e a parlare tra loro con grande sforzo, tra le visiere appannate e con alterata voce metallica. Ebbene, sappiate che fu solo al terzo tentativo di dare finalmente vita alla nova scienza, che una di queste braccia bloccò  risolutamente  il suo omologo – pronto, con la provetta in mano mentre si accingeva a prelevare su di noi il perfido agente pseudobiopsicogeropatogeno… e all’improvviso gridare, nonostante il casco, la mascherina, la muta e le pinne, in un comprensibilissimo idioma nostrano: tutt’o cuntrario!!! (all’incontrario), riferendosi alla provetta che si accingeva a testare!

    Oppure…

    Vedere con i propri occhi, solo due giorni dopo, ripiombare l’Astronave  che arriva – grande S. Caputo – di nuovo, beh  credetemi,  fu  un  duro  colpo per tutti noi! Senz’altro  un  segno  per  i  peccati  commessi  (anche se mi pento molto di più per quelli non fatti; vabbè, ma questa è una Questione privata, cit. CCCP); o forse,  un  monito  per  pentirsi  e  redimersi, ma soprattutto per potersi ancora salvare; o, anche, più probabile, la vita, l’avverso fato e la terra, perenne valle di lacrime… chissà! Rivederla ripiombare in sede con altri astronauti, per  giunta,  ancor più bardati ed alieni, ci fece presagire che quella visita non nascondesse niente di buono. Ed il cuore, poi! Oh il cuore, il tuo cuore     che batte, batte e va giù, giù, sempre più giù, ben oltre il fondo degli sdruciti calzini, oltre le viscere della terra (nel ns caso, le fogne ancora borboniche della ns amata terra…): “Addio mondo crudele”, si sentì riecheggiare in casa e famiglia e per  gli  altri  servizi!  Fu  questo  l’unico ed ultimo pensiero che passò nelle ns teste (buone, meno buone, funzionanti, da riparare, sane o malate)  in  quel  preciso  attimo.  Ma,  c’era un ma… una speranza, una luce oltre le czz di tenebre o al fondo     del fottuto tunnel, fate Voi. Al momento del fatidico ed inoppugnabile elenco che avrebbe  sancito,  anzi  decretato  la  presunta  vita,  reclusione o morte, il ritorno o meno all’amato focolaio (no no no,  correggo:  focolare), all’amato focolare  domestico  con  i  ns  imparagonabili  figli  “ca’ chianneno (piangono a più non  posso)  e  vonne  (desiderano  come non mai) ‘a mamm (quella napoletana, però)”, nell’ultimo attimo  di lucidità che ti rimane, e quindi l’ultima “lotta  per  la  sopravvivenza”  quale unico retaggio del sociadarwinismo imposto, al sentire i cognomi

    che scandivano l’attesa e pronunciavano la condanna, nessuno di essi era a noi noto! Bastò un attimo, un lampo di genio, una voce si levò e disse: ma noi stiamo al nr. 61, non è che cercate il  177?  E  d’improvviso, tornammo a riveder le stelle! Infine, l’astronave che riprendeva il suo viaggio in difesa dei più deboli. Questione di numeri, questione di civici.

    Cocktail…

    Riusciremo ad esser trasparenti nel cripticismo? O espliciti nel non detto? Ci proveremo, dunque. Mischiate tutte le tensioni, l’ansia, l’incredulità, la paura, lo sconforto, la speranza, la gratitudine, la professionalità, l’ironia, la gioia che tutto ciò ci ha provocato in quel grande cocktail che è la vita in tempi di “sacreCorone united” nelle tanto citate dai mass media “residenze” e otterrete nel nostro caso un buon distillato di attenzioni, attese, speranze e cura da gustare con amici, bevendo insieme del vino rosso, indifferentemente dal basso verso l’alto o dall’alto verso il basso. E questo ci piace, molto. In particolar modo, quando chi dirige il vapore fa la sua parte e anche bene, con controlli a tappeto, anche ripetuti e mirati a più fasce della popolazione svantaggiata,  fornendo  i  presidi  adeguati  che scarseggiano ovunque. E ci fa sentire importanti, quasi fossimo calciatori o alti prelati o potenti politici! Bene. Va tutto bene, per ora. E non sempre il detto: “gli è tutto da rifare” ha valore negativo. Al contrario, anzi! Grazie.

    Caffè…

    Le attività iniziano la mattina con un buon caffè, tutti  insieme,  più  o meno alle 8.00: Annaflora, Cristina, Antonio, Lucia, Federica, Bruno, Raffaele, Daniele, Federica, Paolo, Stella e Francesca si danno il cambio

    24 ore su ventiquattro con Enzo, Patrizia, Teresa, Lidia, Luigi e Francesca M. inf. Prof.; Stefania S. assistente sociale; Salvatore Moscatiello TERP, ci supporta con tutti i colleghi del CDR di cui è referente inserendo ogni giorno alcuni dei nostri nelle loro attività esterne, momenti importanti di decondizionamento. Elisabetta F. psichiatra responsabile del CDR, Angela B. psichiatra responsabile  della SIR e Emma D’. psichiatra direttore dei distretti 25 e 26 della Na1 Centro sempre al nostro fianco ci hanno dato una condivisa possibilità di azione, tutti in maniche di camicie, o meglio: di camice.

    Poi, i DPI, come le mascherine chirurgiche e i guanti in lattice, che ci fanno respirare male e sudare per ore e ore, le persone che assistiamo rispondono al sorriso anche attraverso questi strumenti necessari per raggiungere lo scopo che ci siamo prefissati fin dall’inizio: resistere il più possibile al contagio. E i DPI, li usano!

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    Mariangela Mari


    LA RIABILITAZIONE AI TEMPI DEL CORONAVIRUS

    “E SE FOSSI IO IL CORONAVIRUS? … DEVO MORIRE COSI’ IL MONDO SARA’ SALVO E NON AVRO’ PIU’ PAURA CHE QUALCUNO POSSA INSEGUIRMI E UCCIDERMI AL POSTO MIO”

    E così che Nicola (nome di fantasia), il nostro giovanissimo Nicola, ha detto quando, all’ennesima notizia sui giornali e nei tg in tv di questi giorni, la sua mente ha elaborato a suo modo la notizia dell’incredibile e surreale pandemia che sta coinvolgendo il Paese.

    E gli altri utenti della R.E.M.S.? All’improvviso, vedendoci tutti bardati, hanno creduto fossero loro portatori del virus e noi a rischio di contagio. La fatica più dura è stata quando gli abbiam dovuto spiegare che non avrebbero visto i loro famigliari, per chi ne ha; non avrebbero ricevuto pacchi o regali di compleanno; e nemmeno incontrato gli esperti, il prete, i volontari per un pò… PER UN PÒ.

    E allora ecco: “quanto dura un pò”?” Beh di fatto nemmeno noi lo sappiamo e una delle cose più importanti da fare soprattutto nei pazienti con un disagio psichico è quello di non dire mai bugie, perciò gli è stato chiesto di pazientare fino a che Giuseppe (Conte) non ce lo dice.

    E loro da bravi stanno avendo pazienza, aspettano che questo brutto male vada via, ma non è facile per niente, anzi. Ci è toccato rimboccarci le maniche e riorganizzare le giornate ancor di più con attività riabilitative diverse e anche nuove: abbiamo raccontato favole per grandi e piccini che attualmente sono trasmesse sul canale youtube a cadenza settimanale; abbiamo festeggiato onomastici e compleanni con torte preparate dai nostri operatori; stiamo continuando i nostri incontri di social skills training per apprendere o recuperare abilità sociali che la malattia mentale ha compromesso; ci stiamo mettendo in contatto con il nostro istruttore di ginnastica che, con chiamata whatsapp, tiene lezioni interattive allenandoci per due volte a settimana; continuiamo la lettura di un libro sulla vita dell’ex Presidente degli Stati Uniti d’America, Obama, in diretta telefonica con una volontaria della città che ci accoglie, Spinazzola, con tanto di cassa e vivavoce così da poterlo commentare; leggiamo il nostro quotidiano per discuterne le notizie, evitando di trattare, almeno in quel momento, sempre lo stesso tema, il coronavirus; guardiamo film come se fossimo al cinema.

    In effetti i nostri utenti non si sono del tutto accorti di quello che sta accadendo fuori poiché loro “a casa ci restano” tutti i giorni. Non escono per motivi diversi dal virus, hanno una misura di sicurezza da rispettare e, salvo per alcuni che già usufruivano di permessi all’esterno, il cambiamento l’hanno visto solo in noi, dalle distanze mantenute e dalle mascherine indossate.

    Potevamo decidere a fronte di una così tale circostanza di “restare a casa” in questo momento così delicato per chi, ancor di più di delicato ha tanto, soprattutto la sua mente? Beh io credo proprio di no, anzi, è stato ed è doveroso esserci per arginare quell’effetto distruttivo che alcuni pensieri provocano scatenando reazioni improvvise ed imprevedibili, sfiorando il rischio di ricadute.

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    Anonima


    Quasi quasi mi spiace di dover essere io l’ambasciatrice di realtà che riporta ciò che sta attraversando il
    mondo fuori

    Ho pensato di contribuire alla bella iniziativa con La mia storia di questi giorni. L’ho scritta in dieci minuti nelle note del telefono appena finito il turno mi sono sentita di buttarlo giù di istinto.

    Ci si alza, come sempre un po’ più tardi di quanto si vorrebbe, perché il richiamo del letto ha ancora il suo fascino. Ci si veste, si fa colazione, si terminano gli ultimi preparativi. Ci si misura la febbre, si indossa la mascherina. Si esce imboccando strade dai colori un po’ più opachi del solito. In macchina si preferisce quasi quasi ascoltare la radio alla solita musica, per sentire almeno una voce umana che ti faccia compagnia nel viaggio. Si inizia a riflettere sul turno di 12 ore imminente, sperando che non ci sia il posto di blocco e che si riesca ad arrivare con quel po’ di anticipo che ci distingue. Più incognite e più incertezza: come staranno oggi? Cosa dirò quando la stessa persona chiederà per la terza volta “il virus è andato via?”? Quanto mancheranno la famiglia e la piccola rete, già fragile, che sta fuori? Quelle abitudini di autonomia come poter uscire a provvedere alle proprie spese? Cosa mi sarà detto, cosa dovrò percepire, cosa dovrò rispettare si tengano dentro anche se mi piacerebbe lo tirassero fuori per dargli una voce? Spero che nessuno stia male, che a nessuno serva proprio oggi un abbraccio o una pacca sulla spalla che non posso dare per via della distanza di sicurezza. Arrivo. Per fortuna nessuno mi ha fermata, ho incrociato 12 macchine, per passare il tempo le ho contate. Entro, metto le ciabatte, uso la soluzione igienizzante obbligatoria e apro la porta con appese in A3 le istruzioni del Ministero della Salute. Penso che anche oggi sono sola e spero che le mie colleghe, che ormai vedo solo via Skype per l’equipe settimanale, stiano tutte bene e non passino troppo tempo a pensare al lavoro come capita a me ogni tanto a casa ultimamente.

    Tutto cambia. Sono solo 4 le signore ospiti del servizio residenziale dove lavoro, ma in questo periodo quando sto con loro mi mostrano cose che non avrei mai potuto immaginare prima di arrivare. E sono fortunate, perché la comunità si trova in mezzo a un prato bellissimo in montagna, un Maso appena fuori strada. Uno di quei loci amoeni con tanto di caprioli che ogni tanto passano a trovarci. Quasi quasi mi spiace di dover essere io l’ambasciatrice di realtà che riporta ciò che sta attraversando il mondo fuori. Alcune cose sono difficili da spiegare, perché loro non vedono l’esterno da un mese. Pensano alle corriere per tornare a casa o al solito bar che fa il caffè buono, quello che sembra messo apposta vicino al tabacchino.

    Mi scopro un po’ più creativa di quello che penso, cerco di cogliere le piccole cose che succedono per dare uno stimolo che possa attivare l’attenzione, un po’ mi vedo invece la solita riabilitatrice, che scandaglia i progetti riflettendo su come ottimizzare davvero per ciascuno i giorni di chiusura. Questa quarantena è dura per tutti, ma sembra quasi che i ruoli si invertano. Sono 4 donne davvero speciali, e finora, seguendo anche le altre persone che raggiungono il servizio diurno ora chiuso, in tanti momenti non ho potuto essere davvero pienamente accanto a loro in modo dedicato durante il giorno.

    Così trovo la signora anziana, piena di bisogni assistenziali e patologie croniche, che palleggia in giardino con me dopo merenda e mi fa venire il fiatone.

    Riscopro la giovane ragazza appena arrivata, piena di competenze e di doti artistiche, che però mi pone di fronte a un muro di silenzio per quanto riguarda la sua emotività, ponendomi la sfida di come creare una relazione che possa farla sentire accolta In un posto lontano da casa.

    Vedo l’ospite che vorrebbe mostrarsi come dura e ritirata chiamare a casa 7 volte al giorno e verbalizzare per la prima volta che i suoi fratelli per lei sono importanti, perché malgrado tutte le loro difficoltà gli vuole bene. Vuole vederli appena tutto finirà.

    E, infine, la signora ritirata e provocatoria… beh, lei cucina e continua a dormire, ma ora lo fa sulla coperta messa in giardino, lo fa alla luce del sole.

    Questa quarantena è dura per tutti, ma con loro è diverso. Si è creato un rapporto nuovo. Sempre asimmetrico e professionale, ma paritario in termini di vissuto. Tutti attraversiamo la stessa cosa. E allora loro sono la nostra ancora, e noi la loro.

    È questo, credo il senso di questa quarantena per tutti noi. La patologia, lo stigma e le etichette sono sparite, sono rimaste “solo” le persone. Si riscoprono le relazioni semplici, lo stare sul divano senza sapere cosa fare e le chiacchiere in terrazza che, altrimenti, con tutte le attività solitamente previste, non c’è il tempo per fare.

    Io credo che questa quarantena, e ora questa Pasqua così strana, ci insegneranno ad apprezzare l’altro, a comprendere che non bastano le domande di due interviste o le osservazioni durante i 60 minuti di intervento per dirci chi è che abbiamo davanti.

    Mi auguro che per tutti noi questo momento diventi un’occasione per aprire ancora di più la mente, per avere il coraggio di essere autentiche presenze nel vivere il Covid-19 con le persone che accompagniamo. Mostriamo che si può essere preoccupati per ragioni comprensibili, si può annoiarsi senza cadere nel vuoto, si può soffrire in alcuni momenti da soli mentre in altri, quando diventa troppo, girandosi e trovando qualcuno pronto ad ascoltare.

    Certo, come è tipico del nostro lavoro ci saranno difficoltà, ci si confronterà con vissuti difficili da gestire. Ironicamente spesso mi trovo a pensare che nella vita professionale di un TeRP, in fondo, quando mai non è così?

    Poi mi rispondo che forse questo è parte del grande senso del nostro lavoro. Accompagnare qualcuno a scoprire se stesso, scoprendoci a nostra volta.

    E allora quando arriva sera e il turno sta per finire, quando si chiudono le porte e si spengono i telefoni, resta lo stesso il pensiero di cosa sarà domani. Mi preoccupo per me, per la mia famiglia e per le persone che cerco di aiutare nel mio lavoro.

    Ed è proprio in questi momenti, quando anche fuori nel mondo inizia a farsi buio e lo sconforto di dover ancora combattere domani si fa più forte, che penso che proprio in questo momento devo avere fiducia. Perché, anche quando non sembra ci sia una strada sicura da percorrere e pare che tutto intorno sia nero, ho bisogno di sperare che, con il mio piccolo e imperfetto lanternino, insieme a quello delle persone che ho vicino possiamo fare almeno un po’ di luce.

    Un ringraziamento alla collega TeRP che preferisce mantenere l’anonimato

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    Carmen Ricciardi

    La mia esprienza presso la Rems di Reggio Emilia è iniziata il 4 Marzo 2020. La struttura è stata aperta con l’obiettivo di accogliere casi di pazienti psichiatrici sospetti o positivi al Covid-19.

    Fino al giorno prima ho lavorato presso un Centro Diurno e una Residenza Riabilitativa dell’AUSL di Reggio Emilia, ero in attesa dell’apertura della Rems perché era lì che dovevo andare a lavorare, e da un giorno all’altro mi sono trovata proprio lì, ma in una situazione del tutto diversa da quelle che noi professionisti della riabilitazione siamo soliti affrontare, dato che questa volta bisognava gestire un’emergenza come il Covid-19, c’è stato infatti un gran bisogno di reinventarsi da parte di tutte le figure professionali messe in campo.

    I pazienti erano nove, avevano età diverse e patologie psichiatriche diverse, ma li accomunava il rischio di aver contratto il Coronavirus, perché tutti provenivano dalla stessa comunità riabilitativa dove c’era stato un caso accertato. Li vedevamo preoccupati e spaventati, ma collaboranti nel seguire le indicazioni relative all’uso della mascherina, la distanza da mantenere, le norme igieniche da rispettare; al loro ingresso gli era stato consegnato un regolamento, che oltre a dargli il benvenuto nella struttura, descriveva le regole comportamentali da mantenere in REMS per garantire la sicurezza di utenti e operatori durante la quarantena.

     Ogni paziente aveva la sua stanza dotata di tutti i comfort: molto ampia, luminosa, provvista di TV, servizi e una finestra molto grande con vista panoramica sulla verde campagna che circonda la struttura.

    Eravamo quattro Tecnici della Riabilitazione Psichiatrica (due la mattina, due il pomeriggio), in turno c’era la Psichiatra, il coordinatore, oss e infermieri, ognuno svolgeva il suo lavoro facendo squadra con gli altri, noi Terp ci occupavamo principalmente dei bisogni dei pazienti: gestione del denaro per l’acquisto di sigarette, gestione delle sigarette quotidiane, reperire materiali quali: libri, riviste, mandala, prendevamo contatti con operatori referenti e familiari per varie comunicazioni telefoniche, ma soprattutto per garantire che agli utenti fosse portato l’occorrente (abiti, biancheria pulita, denaro, sigarette, e qualunque altra cosa necessaria), solitamente i familiari erano accolti da un Terp all’ingresso della struttura, noi eravamo i mediatori in quanto nessuno poteva varcare l’ingresso dell’edificio, tranne il personale sanitario, in questi casi provvedevamo alla registrazione degli effetti personali e monitorare tutto ciò che apparteneva al singolo paziente.

    La mattina c’era il giro visite insieme alla Psichiatra, ed era il momento in cui i pazienti  si raccontavano, era il momento per conoscerli, per interagire con loro e per capire quali potessero essere i possibili svaghi o strategie da proporgli, che potessero rendere quelle giornate meno lunghe. Così strada facendo, giorno dopo giorno abbiamo scoperto tra i pazienti persone appassionate all’attività fisica, alle riviste di storia, ai romanzi di Danielle Steel, c’era chi passava molto tempo a colorare i mandala e in questo modo si rilassava, chi preferiva guardare la TV o fare un cruciverba, chi semplicemente dalla stanza telefonava in guardiola e con una scusa qualunque cercava un dialogo con uno di noi, chi telefonava raccontandoci una barzelletta per sorridere insieme, altre volte  elefonavano dalla stanza in lacrime richiedendo la nostra presenza, conforto e sostegno, e così indossavamo i nostri DPI ed entravamo in stanza parlando a distanza coperti da occhiali e mascherine. Qualcuno di loro dopo i primi giorni di quarantena, durante  il giro visite mattutino chiedeva: “come state?”  e la nostra risposta era sempre accompagnata da un sorriso spontaneo dietro le mascherine; non eravamo più solo noi a preoccuparci di loro, ma anche loro di noi e questo mi ha fatto riflettere sul fatto che stiamo vivendo un momento storico dove l’aspetto umano e l’aiuto reciproco non hanno confini, siamo tutti in pericolo e tutti vogliamo prenderci cura dell’altro, c’è forse il bisogno di prendersi cura soprattutto di chi si prende cura di noi, e un “come stai” vuole simboleggiare proprio questo.

    Per loro all’inizio eravamo tutti uguali con ”quella roba addosso”, ma dopo qualche giorno hanno iniziato a chiamare per nome ognuno di noi, iniziavano a riconoscerci, e ho capito che per loro ognuno di noi era speciale, perché abbiamo fatto sì che quei quattordici giorni non fossero un inferno. Il nostro ruolo non è stato riabilitativo, quanto di supporto ad una quarantena forzata,  in un posto sconosciuto, a persone con problematiche serie che avrebbero voluto scappare da una situazione simile (qualcuno lo ha anche verbalizzato), invece hanno compreso e hanno scelto di restare per il bene proprio e altrui, anche con i loro enormi “fantasmi” nella testa e con la voglia di essere altrove. Non c’è stato giorno in cui non abbiamo ricevuto un grazie per ciò che abbiamo fatto, e ciò che oggi mi porto dietro di questa singolare esperienza è la compostezza di quelle nove persone, la loro adeguatezza nel fare delle richieste, nel saper attendere se non potevamo fornirgli subito quanto chiesto, oltre le splendide parole scritte da una paziente alla dimissione: “Sempre attente ai nostri bisogni, avete visto lacrime e sorrisi nascosti dalle mascherine, avete ascoltato le nostre storie, per quanto mi riguarda mi avete consolata e incoraggiata, mi avete sopportata e supportata. E’ stata un’esperienza durissima da sola con i miei fantasmi.. Grazie a chi mi ha permesso di leggere un libro, a chi mi ha offerto una sigaretta, a chi mi ha offerto una merendina, vi porterò sempre nel mio cuore”… E io porterò sempre questo pezzo di crescita interiore e professionale nel mio, consapevole che la nostra è una professione di rilievo, capace di lasciare un segno positivo in qualunque circostanza.

L’Associazione Italiana Tecnici della Riabilitazione Psichiatrica (A.I.Te.R.P.) è dal 1992 l’associazione di categoria di riferimento per tutti i Tecnici della Riabilitazione Psichiatrica (Te.R.P.). A.I.Te.R.P. aderisce al CoNaPS (Coordinamento Nazionale Professioni Sanitarie),che cura il coordinamento della rappresentanza delle Associazioni delle Professioni Sanitarie

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